Tutto quello che dovete sapere sui pro e i contro
La definizione più semplice di sushi è “riso aromatizzato all’aceto, farcito o ricoperto con pesce, molluschi, crostacei, verdure e uova, crudi, cotti o marinati”.
Si mangia come spuntino, antipasto o come portata principale e viene preparato in diverse forme. Si può infatti passare dalla classica ciotola di riso cosparso di pesce e verdure, agli involtini o forme pressate negli stampi.
In Giappone è un cibo quotidiano. Inizialmente era un metodo di conservazione del pesce.
Il pesce, infatti, veniva prima eviscerato, salato e infine posto in mezzo al riso cotto, la cui fermentazione provocava un aumento di acidità dell’ambiente in cui si trovava, al punto da poterlo conservare anche per interi mesi, persino stoccandolo e trasportandolo comodamente. Quando poi bisognava consumare questo alimento, il riso veniva eliminato e si mangiava solo il pesce. Solamente in seguito il sushi si diffuse fino a diventare una delle preparazioni più famose del pesce, non solo nei sushi bar ma anche nelle case, dove viene preparato e consumato dall’intera famiglia.
STORIA
Il sushi non ha origini giapponesi. Qualcuno, leggendo questo esordio, è già sull’attenti.
Il sushi, simbolo del paese nipponico e della sua tradizione culinaria, non sarebbe nato in Giappone, bensì in Cina o addirittura in Corea.
Molti elementi della cultura giapponese, infatti, traggono le proprie origini da altre nazioni.
Il periodo preciso dell’invenzione del sushi non è noto, ma già nel V secolo a.C., nell’Asia sud orientale, si usava consumare pesce in salamoia con riso.
Alcuni affermano che il sushi è nato quando si è iniziato a coltivare il riso, nel IV secolo a.C., mentre altri ritengono che l’uso sia stato introdotto da monaci buddisti tornati dalla Cina al termine degli studi nel VII secolo d.C.
I due caratteri cinesi che, formano la parola sushi, che corrispondono a “pesce conservato” e “pesce fermentato nel riso e sale”, comparvero per la prima volta in Giappone all’inizio del VIII secolo d.C.
A quell’epoca il pesce conservato nel riso veniva inviato nella capitale Kyoto come contributo fiscale. Questo primo tipo di sushi, nare zushi, preparato con carpe e riso disposti in strati e fermentato fino ad un anno, si trova anche al giorno d’oggi.
Verso la metà del XV secolo si cominciò a bollire il riso, invece di cuocerlo al vapore e si introdusse l’abitudine di pranzare a metà giornata: anche i giapponesi cominciarono a consumare tre pasti al giorno.
All’inizio del XVII il nuovo governo si trasferì nell’antica città imperiale di Kyoto a Edo (oggi Tokyo), istituendo una potente struttura politica e sociale che indusse un incremento della produzione alimentare e la maggiore coltivazione del riso.
A sua volta, questo comportò la diffusione di altri prodotti derivati del riso, per esempio l’aceto di riso. Così, mentre in precedenza il riso veniva lasciato fermentare in modo naturale con la produzione di acido lattico, si iniziò ad aggiungervi l’aceto, cosa che ridusse molto i tempi di preparazione del sushi, da vari giorni ad alcune ore. In una sola notte il sushi era pronto per essere consumato.
Il sushi veniva comunque sempre pressato negli stampi e il pesce era marinato, bollito o cotto alla griglia; non si usava ancora infatti consumarlo crudo.
NIGHIRI ZUSHI: IL PRIMO FAST FOOD
Yohei Hanaya, che nell’800 aprì un banco per la vendita del sushi a Edo, è ritenuto da molti l’inventore del nighiri zushi. Fu il primo chef che preparò con il riso aromatizzato all’aceto, un bocconcino appoggiandoci sopra una fettina di pesce crudo.
Una tecnica nuova, rispetto a quella degli chef più famosi che preferivano ancora la tecnica tradizionale e, che fece leva sulla modernità della città e sulla fretta dei cittadini che chiedevano una preparazione veloce ed espressa.
La preparazione di Yohei Hanaya, si diffuse quindi molto rapidamente. Venne ben presto imitata da molte persone che ad ogni angolo della città allestivano banchi a gestione familiare per preparare e vendere sushi.
I banchi erano posizionati in punti strategici della città come zone di lavoro e bagni pubblici in cui le persone andavano a rilassarsi dopo una giornata di lavoro.
I clienti venivano serviti con ciotole comuni contenenti zenzero sottaceto e salsa di soia e si pulivano le mani su una stoffa appesa dietro di loro come una tenda. Un segno sicuro della buona qualità del sushi era quindi una stoffa sporca, indicante il gran numero di clienti soddisfatti del servizio.
JIRO ONO, IL PIÚ GRANDE CHEF DI SUSHI AL MONDO
“L’assoluta semplicità conduce alla purezza”, è la frase con cui inizia il documentario su Jiro Ono, il più grande cuoco giapponese specializzato in sushi. È l’unico maestro di sushi di Tokyo ed il cuoco più anziano ad aver ricevuto tre stelle Michelin (2008).
Jiro Ono, proveniente da una famiglia molto povera ed è entrato nel mondo del sushi all’età di 9 anni e da allora non ne è più uscito. Ha una personalità molto forte e una grande dedizione al lavoro.
Fino ai suoi 70 anni si occupava personalmente, ogni giorno, di andare al mercato ittico di Tokyo per scegliere il miglior pesce da servire. Poi però, dopo un attacco di cuore proprio mentre si trovava al mercato, affidò questo compito al suo figlio maggiore il quale tutt’ora tutte le mattine si reca al mercato per l’acquisto del pesce migliore che il venditore riserva proprio a Jiro.
Sukiyabashi Jirō, è il nome del ristorante di Jiro. Ha solamente 10 posti a sedere e si trova nel sotterraneo di un palazzo vicino alla stazione di Ginza a Chuo, Tokyo. In questo luogo, Jiro ogni giorno serve, a pochi fortunati clienti, il sushi più buono del mondo.
Il ristorante non si serve di tradizionali menù a scelta, bensì propone, in base al pesce disponibile al momento, un tasting course di 20-21 assaggi, a partire da ¥30.000 (circa 250 euro).
Assaggiare i piatti preparati da Jiro Ono mette in discussione tutte le altre volte che si è mangiato giapponese.
Lo chef 93enne è un’istituzione in città. Nulla viene lasciato al caso, dalla ricerca della materia prima al servizio, tutto è studiato alla perfezione. Venti le portate totali, a partire dai pesci più classici come tonno e calamaro seguiti dal pescato del giorno. Il gran finale, poi, sono i sapori forti, come il riccio di mare, le uova di pesce e l’anguilla.
Vi sorprenderà sapere che un pasto del genere durerà solo 15 minuti. L’essenziale.
Nel film, lo chef viene descritto come un uomo abitudinario che, giorno dopo giorno, ripete sempre gli stessi gesti. In questa ritualità comincia la giornata, prende i mezzi pubblici per potersi recare al suo ristorante, passa sempre dallo stesso tornello e arriva al suo tempio. Ripetitivo, certo, ma mai banale. Perché, come lui stesso racconta nel suo documentario, è la notte a portargli consiglio: “Le idee mi vengono sognando. Mi sveglio nel cuore della notte e balzo giù dal letto perché in sogno vedo nuovi modi di fare sushi”.
Per definire le persone come Jirō, in Giappone, viene utilizzato un termine specifico: Shokunin! Una traduzione letterale di questo termine potrebbe essere “artigiano”, ma non rende in realtà il grande significato che sta dietro a questa parola. Si tratta infatti, di un atteggiamento, un modo di essere e un modo di vivere la propria professione. Significa migliorare il proprio prodotto e migliorarsi ogni giorno di più. Dedizione completa al proprio lavoro.
GLI INGREDIENTI DA TENERE SEMPRE IN DISPENSA PER LA PREPARAZIONE DEL SUSHI.
La grande diffusione del sushi ha reso molto più facile l’acquisto, nei grandi supermercati, degli ingredienti essenziali di base della cucina giapponese come: il riso a chicchi piccoli, il pesce, le alghe nori, il wasabi (ravanello giapponese), l’aceto di riso e la salsa di soia giapponese.
Scopriamo ora le proprietà di questi ingredienti.
WASABI
Siamo abituati ad associare alla parola wasabi, una salsa verde giapponese di sapore estremamente piccante. In realtà, wasabi è il nome di una pianta, il ravanello giapponese, in botanica conosciuta come Wasabia japonica, Cochlearia wasabi, o Eutrema japonica.
ll wasabi appartiene alla stessa famiglia del rafano, dei cavoli e della senape (Cruciferae o Brassicacee); questa pianta cresce spontanea lungo le valli fluviali ed i torrenti montani del Giappone.
Le due specie più coltivate del wasabi sono sicuramente W. japonica var. Daruma e var. Mazuma. Della pianta, si utilizzano sia le foglie che il rizoma: le foglie, dopo essere state essiccate, vengono utilizzate in ambito culinario per dare corpo e sapore a molte pietanze, quali insalate, pane e formaggi. La radice, invece, viene ampliamente utilizzata nella preparazione di salse piccantissime. In realtà più che di salsa, si dovrebbe parlare di pasta, data la sua consistenza esclusiva e densa: non a caso, le salse wasabi sono reperibili in tubetti molto simili a quelli del dentifricio.
Per la sua coltivazione il wasabi richiede delle condizioni ideali di acqua e di luce: quello di qualità superiore viene coltivato su alberi ombreggiati, talvolta su appositi “terreni di ghiaia”, coperti da un velo di acqua sgorgante dai torrenti di montagna.
La coltivazione del wasabi è davvero complessa, soprattutto in Giappone, dove la richiesta è molto consistente, si trovano pochissimi luoghi adatti alla coltivazione del wasabi su larga scala. Per risolvere a questo problema, in Giappone sono state costruite alcune strutture appositamente progettate per la crescita di questa pianta. Inoltre, ci sono consistenti importazioni di wasabi in territorio giapponese dalla Cina.
Come abbiamo detto precedentemente, la radice del wasabi è sfruttata per la preparazione di salse da utilizzare come condimento per carni e soprattutto per accompagnare il pesce crudo, tipico piatto nipponico. La salsa ottenuta vanta proprietà antisettiche ed è ricchissima di vitamina C (che come ormai sapete è un ottimo antiossidante naturale e un ottimo alleato del sistema immunitario) Vitamina A e Vitamine del gruppo B (B1, B5, B9). La pasta di wasabi presenta una colorazione verdastra ed il sapore è molto simile al daikon, ma molto più piccante.
Questa salsa è conosciuta con il nome di “namida”, vale a dire lacrima: infatti, quando assunta in quantità abbondanti, la sua piccantezza induce la lacrimazione.
In commercio, il wasabi si trova sotto forma di polvere (sapore meno pungente) o di pasta.
Inoltre, il wasabi, oltre ad avere proprietà antisettiche, vanta proprietà antibatteriche e digestive. Ha al fine, infatti, di ridurre la carica batterica del pesce crudo.
Queste proprietà vengono svolte anche nei confronti del nostro organismo. Infatti la funzione antibatterica aiuta, ad esempio, la salute dentale ostacolando il proliferare di batteri che si formano all’interno del cavo orale; il ruolo antisettico, è svolto dalla Vitamina C che rallenta lo sviluppo dei microbi, all'esterno, sulla superficie o all'interno di un organismo. Funge inoltre da anticancro, in quanto il wasabi è ricco di precursori di sostanze fitochimiche in grado di attivare, nel fegato, enzimi che disintossicano agenti cancerogeni ancor prima che possano nuocere all’organismo, innescando il tumore. Infine ha funzione balsamica, ossia è un vero e propria toccasana per le vie respiratorie, soprattutto in caso di raffreddore.
Ha un costo piuttosto elevato ed è per questo che viene spesso adulterato con altre sostanze: infatti, il rafano si presta ad “imitare” il wasabi, tanto da essere spesso aggiunto alla salsa originaria per abbattere i costi sul prodotto finale. Inoltre, dopo l'essiccazione, la radice di wasabi tende a perdere il suo odore originario: per ovviare a questo inconveniente, si addizionano rafano ed altre spezie, in grado di rendere più corposo ed intenso l'aroma.
ALGA NORI
Specie del genere Porphyra, note soprattutto con il nome nori, perché quasi esclusivamente prodotte nel paese del Sol Levante sebbene crescano nella maggior parte dei mari.
La coltivazione di queste alghe si è resa necessaria già in epoca lontana perché le quantità raccolte non erano sufficienti a rispondere all’importante richiesta di questo alimento.
Le alghe nori sono infatti state coltivate in Giappone e nella Repubblica della Corea sin dal XVII secolo, momento in cui le scorte naturali cominciavano a non essere più in grado di soddisfare la domanda. Oggi, le coltivazioni di Porphyra sono oggetto di una delle più grandi industrie di acquacoltura in Giappone, Corea e Cina. A causa della rilevante importanza economica e dei benefici per la salute umana, le coltivazioni di alga nori stanno cominciando ad estendersi oltre i confini di origine. In effetti, specie del genere Porphyra crescono nella maggior parte delle zone intertidali del globo terrestre, estendendosi anche in alcune regioni subtropicali e subartiche, come confermato da reperti storici che raccontano come queste alghe abbiano rappresentato un'importante fonte di sostentamento per le popolazioni indigene di Alaska, Canada, Hawaii, Nuova Zelanda e parte delle British Isles.
Sono alghe rosse o porpora e diventano più scure o perfino nerastre seccando, diventano invece verdi in seguito a cottura. Le alghe nori sono solitamente vendute sotto forma di sottili fogli secchi dall’aspetto cartaceo. Quelle secche di buona qualità, sono brillanti e croccanti, di colore verde e traslucide se osservate in controluce.
L'alga nori è una delle alghe più nutrienti, con un buon contenuto proteico. È ricca inoltre di iodio, povera di grassi e carboidrati.
Essa è nota soprattutto per la ricchezza in minerali e vitamine A (sotto forma di Beta-Carotene), C, PP (niacina) ed acido folico.
Di contro, i processi di essicazione a cui viene sottoposta, riducono sensibilmente il contenuto delle vitamine termolabili, come la C, originariamente presente in concentrazione superiore a quella delle arance. Anche il contenuto di sodio, originariamente elevato, tende a ridursi nei processi di lavaggio da cui si produce l'alga nori in sfoglie.
La spiccata sapidità del prodotto, oltre al contenuto non certo trascurabile di sodio, è legata al particolare profilo amminoacidico dell'alga nori, dove spiccano tre amminoacidi: alanina, glicina ed acido glutammico. Quest'ultimo, unito al sodio, forma il glutammato monosodico, un noto esaltatore di sapidità che stimola dei particolari recettori del gusto umami.
Per quanto riguarda la parte edibile, l'alga Nori è digeribile per circa il 75% del proprio peso. La rimanente percentuale è legata al generoso contenuto di fibre, soprattutto solubili.
Nell'alga nori sono presenti anche l'amminoacido taurina che contribuisce, insieme alle fibre solubili, a ridurre i livelli di colesterolo nel sangue oltre a regolarizzare l'attività epatica e il pigmento rosso fluorescente r-ficoeritrina, utilizzato come marker nella diagnostica medica.
Il contenuto di betaina contribuisce a ridurre il rischio cardiovascolare associato ad alti livelli plasmatici di omocisteina, tipici di chi segue una dieta ricca di carne e povera di ortaggi e frutta di stagione.
Numerosi sono i benefici che si possono ottenere dal regolare consumo di alga Nori, legati all'abbondante presenza di nutrienti amici per la salute (tra cui iodio, selenio, beta carotene, vitamine antiossidanti, betaina, alginati, ferro ed acidi grassi omega tre, in particolare EPA).
Il consumo di alga nori può essere utile ai pazienti che soffrono di ipercolesterolemia, ipertrigliceridemia, pre-diabete, trombosi, ulcera peptica, malnutrizione, stress e difficoltà di concentrazione, stitichezza, ipotiroidismo da carenza iodica, malattie infiammatorie, sovrappeso ed obesità, oltre a giocare un possibile ruolo preventivo nello sviluppo di cardiopatie ed alcuni tipi di cancro, come quello al colon e alla mammella.
SALSA DI SOIA
É un condimento originario della Cina dove è conosciuto da oltre 2500 anni. La salsa di soia gioca un ruolo fondamentale nella cucina asiatica.
La salsa di soia (Shoyu o Shoya per i giapponesi, Teu-Yu per i cinesi) è un condimento liquido, di colorito nerastro, odore fortemente aromatico e sapore caratteristico, particolarmente sapido.
In realtà, non è corretto parlare singolarmente di "salsa di soia", sarebbe, invece, più corretto utilizzare il plurale "salse di soia", poiché ne esistono di diversi tipi e con varie composizioni.
La salsa di soia tradizionale, viene prodotta con fagioli di soia interi e grano macinato.
In Cina la porzione di fagioli di soia è più alta rispetto a quella dei cereali, mentre in Giappone le porzioni sono uguali.
Il tamari, invece, viene prodotto solo con fagioli o con pannello di soia (il residuo della pressatura dei fagioli nel corso della fabbricazione dell’olio), di conseguenza non contiene cereali (adatto quindi all’alimentazione dei celiaci).
La salsa di soia (cinese o giapponese) contiene alcol che viene prodotto durante la fermentazione dei cereali.
Il tamari, che invece non è prodotto con cereali, contiene alcol etilico solo perché viene aggiunto nella misura del 2% alla fine della produzione, per prevenire lo sviluppo di muffe e funghi.
La salsa di soia normalmente venduta nei nostri supermercati è quasi sicuramente un prodotto sintetico, un’imitazione dell’originale di cui però non ne ha ne il sapore ne il valore nutritivo.
Questa salsa, usata come condimento, presenta mediamente il 6% di sale. L'abbondanza di sodio nella salsa di soia costituisce l'unica controindicazione evidente al suo consumo (15 ml di tamari contengono 810 mg di sodio e 15 ml di salsa di soia ne contengono 829 mg).
Da alcuni anni, per sopperire alle richieste dei consumatori che desiderano ridurre l’apporto di sale nella propria dieta, vengono prodotte salse con tenore salino meno elevato.
È chiaro che la salsa di soia è un alimento che non si presta alla dieta per soggetti che presentano pressione alta o che sono predisposti a questa patologia.
ACETO DI RISO
L'aceto di riso è un condimento dal gusto acido, ricavato per fermentazione dei semi amidacei di riso (specie botanica Oryza sativa).
Da sempre l’ingrediente tradizionale della cucina cinese, giapponese, coreana e vietnamita, oggi l'aceto di riso è largamente diffuso anche in occidente, dov'è arrivato (insieme al sakè) soprattutto grazie alla ricetta del riso gohan (largamente usato nel sushi).
L’aceto di riso si può presentare con vari colori a seconda della tipologia. Quelli diffusi in Cina, per esempio, sono soprattutto di colore nero e rosso.
Oltre alle caratteristiche organolettiche tipiche degli aceti, l’aceto di riso si contraddistingue per un aroma e un gusto delicati, ma abbastanza distintivi.
L'aceto di riso è un alimento quasi totalmente privo di calorie e dal contenuto nutrizionale poco interessante.
Si distingue dai più comuni aceti di vino e di mela per il gusto più tenue e la maggior dolcezza.
Aceto di riso non è sinonimo di aceto di vino di riso, che rappresenta un condimento diverso.
Entrambi i prodotti sono a base di riso fermentato ma, mentre l'aceto di riso si ottiene direttamente dal riso inoculato, l'aceto di vino di riso è ricavato dalla bevanda alcolica che ha come base la stessa materia prima.
RISO GOHAN
Il riso in bianco in Giappone ha lo stesso valore che hanno pasta e pane per la cucina italiana.
È la base di quasi ogni pasto della tradizione culinaria giapponese. Il termine riso cotto, “gohan”
(ご飯), distinto dal termine “o-kome” (お米), riso crudo, è talmente presente nella cultura alimentare nipponica da essere utilizzato in generale per esprimere il concetto stesso di pasto o il cibo in genere. Asa gohan (朝ご飯) è infatti il pasto della mattina, ossia la colazione, hiru goha
(昼ご飯) il pasto del giorno, ossia il pranzo, ban gohan (晩ご飯), il pasto della sera: la cena.
Preparare questo riso bianco è abbastanza semplice. Lo si può fare con il cuoci-riso per semplificarsi ulteriormente la vita, ma basta una normale pentola per bollire la pasta. Fondamentale è la scelta del riso, rigorosamente a chicco tondo, molto raffinato e bianco, perlato quasi traslucido corrispondente, in quella che è la classificazione italiana delle varietà di riso, a un tipo “comune” o “semi fino“. Il sapore è rigorosamente non aromatico, tendenzialmente neutro, pulito ma fragrante in bocca.
Per le preparazioni della cucina nipponica non è consigliabile usare tipologie di riso allungate.
A livello nutrizionale, si tratta di un riso particolarmente ricco di amido di conseguenza molto calorico e con un decisivo impatto sulla glicemia. Bisogna però sottolineare che, durante la preparazione, questo riso viene lavato e sciacquato talmente tante volte che l’acqua di lavaggio torna ad essere limpida (questo sta ad indicare che una buona parte di amido viene persa durante questa fase).
PESCE CRUDO
Oggi il consumo di pesce crudo è diffuso sotto forma di carpacci, tartare e piatti appartenenti a tradizioni gastronomiche lontane, come il sushi, il sashimi e il cirashi (giapponesi), il cebiche (del sud America) o il gravlax (dei paesi nordici). Le specie che più si prestano al consumo da crudo sono: tonno, ricciola, dentice, orata, capesante, seppie, aragosta, astice, gamberi, scampi e salmone.
Ricordiamo inoltre che, oltre alle preparazioni commerciali e ristorative, esistono abitudini meno diffuse ma comunque degne di nota che prevedono il consumo di animali prelevati e mangiati direttamente nell'ambiente marino. Tra questi, i più comuni sono senz'altro: i molluschi bivalvi (cozze, vongole, ostriche e fasolari), i molluschi gasteropodi (patelle, orecchie di mare) e le uova di riccio di mare.
Il pesce rappresenta un alimento fondamentale per la nostra corretta alimentazione. È ricco di proteine ad alto valore biologico e di grassi polinsaturi (buoni), tra i quali gli omega 3, molto importanti per numerose funzioni del nostro organismo: diminuiscono il rischio cardiovascolare, contribuiscono allo sviluppo del sistema nervoso, alla trasmissione neuronale, a funzioni come la memoria e proteggono le cellule di tutti gli organi compresa la pelle. Per tutte queste ragioni il pesce dovrebbe essere presente con una buona frequenza sulle nostre tavole. Sicuramente andrebbe consumato più spesso rispetto alla carne, la quale contiene (bianca o rossa che sia) il grasso che crea danno alle nostre arterie (è il grasso che le ostruisce).
È chiaro che la carne bianca è più raccomandabile di quella rossa (che è da consumare molto raramente), infatti se ne consiglia il consumo al massimo di due volte a settimana.
Ma torniamo al pesce. In Italia, nonostante il paese sia circondato dal mare, questo alimento si consuma meno di quanto si dovrebbe, ossia almeno 3 porzioni a settimana. Le cause solitamente sono: gusto, tempo, preparazione, pulizia, costo.
Fuori casa il consumo di pesce crudo come sushi o sashimi è diventato per molti un’abitudine grazie anche al proliferare di ristoranti e sushi bar. Il sempre più diffuso consumo è dovuto alla “moda”, alla praticità del consumo stesso, al costo accettabile (considerando che spesso viene consumato in luoghi in cui, pur spendendo pochi euro, se ne mangia in grandi quantità) e forse anche alla percezione che sia più salutare di quello cotto. In realtà, le proprietà nutritive fondamentali del pesce come proteine e grassi polinsaturi non differiscono dal pesce cotto correttamente, per esempio al vapore o al forno. Quanto alle quantità, per un adulto si raccomanda di consumare circa 600 grammi di pesce a settimana, quantità difficilmente raggiungibile con 3 porzioni medie di sushi.
Sicuramente il consumo del pesce crudo permette l’assunzione delle vitamine termolabili in esso contenute. Tra queste, le molecole che subiscono maggiormente il trattamento termico sono: la tiamina (Vitamina B1), la riboflavina (vitamina B2), l'acido pantotenico (Vitamina B5) ed il tocoferolo (Vitamina E). Risultano invece meno danneggiati il retinolo ed i suoi equivalenti (Vitamina A e β-carotene). Quasi assente, quindi trascurabile, l'acido ascorbico (Vitamina C).
Sicuramente ci sono dei vantaggi nel mangiare pesce crudo ma non sono sufficienti a giustificarne il consumo frequente. Ovviamente, l'aspetto igienico è molto importante e non può essere sottovalutato, ignorarlo, infatti, costituirebbe un serio rischio per il proprio stato di salute e quello collettivo.
I CONTRO DEL PESCE CRUDO
Quando si mangia pesce crudo è importante accertarsi che l'alimento sia stato sottoposto ad abbattimento. Per non incorrere in rischi è possibile fare ciò anche a casa mettendo il pesce nello scomparto del freezer per almeno 96 ore.
I prodotti della pesca consumati crudi o poco cotti costituiscono un possibile veicolo di trasmissione all’uomo di zoonosi parassitarie.
L’anisakiasi è una zoonosi parassitaria da nematodi appartenenti alla famiglia Anisakidae.
CICLO BIOLOGICO DELL’ANISAKIS
La famiglia Anisakidae è composta da cinque generi: Anisakis, Pseudoterranova, Contracaecum, Phocascaris e Hysterothylacium. Di questi, i primi quattro generi sono responsabili di malattie trasmissibili all’uomo (zoonosi) mentre il genere Hysterothylacium non è patogeno, data la
termolabilità del parassita (muore alla temperatura di 30 °C).
Le larve di Anisakis, lunghe tra 1 e 3 cm, possono essere viste a occhio nudo e infettano facilmente alcune specie ittiche. Il pesce spatola, per esempio, contiene quasi sempre il parassita. Anche il suro nel 95% dei casi è contaminato, seguito dal lanzardo (75%), ma anche da specie più conosciute come lo sgombro (71%), il merluzzo (40%), il totano (22%), le alici (17%), la triglia (10%), il cefalo (9%) e la sardina (1%).
Il ciclo biologico delle specie appartenenti al genere Anisakis si svolge in ambiente marino attraverso uno o più ospiti intermedi. Gli ospiti definitivi sono i mammiferi marini, in cui le larve si sviluppano fino a raggiungere lo stadio adulto.
Dalle uova libere in acqua, si sviluppa l’embrione da cui si formano le larve di primo stadio (L1), si trasformano nelle larve di tipo L2 in seguito alla prima muta. Queste diventano un nutrimento per i crostacei. In questi individui, le larve raggiungono la fase L3. Quando i crostacei vengono mangiati dai altri pesci o dai molluschi, le larve, si annidano nel tratto digerente nel nuovo ospite, passando così da un animale all'altro attraverso la predazione.
Il ciclo biologico si conclude (e riavvia) quando i pesci o i molluschi (gli ultimi intermedi del ciclo) vengono divorati da un ospite definitivo, come abbiamo detto precedentemente, un mammifero marino, per esempio un delfino.
La presenza del parassita viene solitamente rilevata quando le larve sono in stadio evolutivo L3, eviscerando i pesci. L’uomo può essere coinvolto nel ciclo biologico del parassita come ospite accidentale (paratenico) ingerendo le larve presenti nei prodotti ittici crudi, poco cotti o sottoposti a trattamenti chimici non sufficienti ad inattivare le stesse.
ANISAKIDOSI E COME PREVENIRLA
Una volta ingerita, la larva spesso muore o non dà sintomi. In alcuni casi, però, soprattutto se vengono ingerite più larve, queste possono invadere la mucosa gastrica o intestinale e causare dolori addominali, nausea, vomito e occasionalmente febbre. I sintomi insorgono generalmente entro 6 ore dall’ingestione di pesce contaminato.
Una volta penetrate nello spessore della mucosa provocano una reazione infiammatoria con formazione di granuloma e con possibilità di ulcerazione della mucosa, fino a perforazione della parete.
Sono anche conosciuti casi di reazioni allergiche a seguito di ingestione di larve di Anisakis, con episodi anafilattici con orticaria e angioedema. In Italia i casi segnalati di anisakidosi sono sporadici. Non si tratta di una malattia trasmissibile da uomo a uomo, tuttavia chi ha contratto la parassitosi una volta può anche contrarla una seconda volta.
È evidente che la malattia provoca sintomi che possono essere scambiati per altre malattie dell’apparato digerente. Non è chiaro quindi effettivamente quanti casi di anisakiasi si verifichino in Europa: alcuni ricercatori ipotizzano 500 casi ogni anno, ma è molto probabile che il numero sia sottostimato.
La diagnosi di anisakidosi è basata sui dati anamnestici (ingestione prodotti ittici crudi) e sul tipo di sintomi in atto. La terapia è essenzialmente di tipo chirurgico e in caso di localizzazione gastrica o duodenale recente è spesso facilmente risolvibile tramite asportazione diretta del parassita con gastroscopio.
Per prevenire incidenti, il pesce venduto crudo eviscerato, sfilettato o porzionato, viene sottoposto a ispezioni visive, a campione o in maniera continuativa a seconda del metodo di lavoro (meccanico o manuale). Il parassita infatti si annida negli organi della cavità addominale.
È necessario anche un controllo visivo condotto su filetti e tranci dopo il porzionamento.
Quando il pesce è destinato a essere consumato crudo, marinato, salato o trattato in maniera tale da non garantire l’uccisione del parassita, è previsto un abbattimento della temperatura fino a -20°C per almeno 24 ore o a -35°C per 15 ore in modo da neutralizzare le larve.
La legge prevede che nelle pescherie e nei supermercati debba essere comunque esposto il seguente avviso per i consumatori:
INFORMAZIONI AL CONSUMATORE PER UN CORRETTO IMPIEGO DI PESCE E CEFALOPODI FRESCHI
In caso di consumo crudo, marinato o non completamente cotto il prodotto deve essere preventivamente congelato per almeno 96 ore a -18 °C in congelatore domestico contrassegnato con tre o più stelle.
Anche la conservazione sotto sale è un ottimo metodo per eliminare il rischio, a patto che, si prendano alcune precauzioni: il sale deve essere utilizzato in concentrazione dell’8/9% e il prodotto deve essere consumato solo dopo sei settimane dal trattamento (il tempo massimo di sopravvivenza delle larve in queste condizioni). Chi vuole essere ancora più sicuro, può congelare il pesce prima della preparazione sotto sale.
L’affumicatura a caldo (70/80°C per 3-8 ore) è un altro buon metodo per uccidere le larve, mentre quella a freddo, sempre più utilizzata per pesci come il salmone e sdoganata anche per l’uso domestico, non è in grado di sanificare il prodotto. Ancora una volta, è consigliato un trattamento preventivo in congelatore prima dell’affumicatura a freddo.
In ogni caso il metodo migliore per uccidere l’Anisakis resta la cottura: secondo alcuni studi è sufficiente un minuto a 60°C per distruggere tutte le larve eventualmente presenti. Quando ci si mette ai fornelli, però, è necessario tenere conto anche delle dimensioni del filetto, del trancio o addirittura del pesce intero che si sta cucinando: per esempio, un trancio spesso 3 cm richiede 10 minuti di cottura a 60°C.
NON SOLO ANISAKIS
L’anisakis è il più frequente, ma non l’unico, rischio in cui si può incorrere mangiando pesce crudo.
Non è da sottovalutare l’infezione da Epatite A.
L’epatite A è una malattia infettiva acuta, causata da un virus a RNA, che colpisce il fegato.
L’infezione generalmente si trasmette attraverso il contatto con cibi, acqua e feci contaminate.
L’infezione può seguire la via inter-umana attraverso il contatto diretto con una persona infetta.
Un soggetto infetto che elimina il virus nell’ambiente è contagioso dai 7-10 giorni prima della comparsa della sintomatologia ad una settimana dopo.
La malattia spesso decorre in maniera asintomatica, soprattutto quando l’infezione viene contratta in età infantile.
La sintomatologia, quando presente, compare dopo un periodo di incubazione di 15-50 giorni con inappetenza, malessere generale, febbre, nausea e vomito. Dopo qualche giorno compare l’ittero, cioè la presenza di colorito giallognolo della pelle, delle sclere (la parte bianca dell’occhio) e delle mucose, dovuto alla aumentata concentrazione di bilirubina nel sangue a causa della diminuita funzionalità del fegato.
La malattia ha generalmente un’evoluzione benigna, anche se con decorso prolungato (dura dalle 2 alle 10 settimane). Talvolta, soprattutto nei soggetti adulti affetti da patologie concomitanti, sono state osservate forme con andamento grave e forme fulminanti per insufficienza epatica.
La persona che ha contratto l’infezione rimane immunizzato per tutta la vita.
Il Ministero della Salute ci dice che l’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) e il Centro Europeo per la Lotta alle Malattie (ECDC), hanno individuato molteplici tipologie di alimenti che possono essere veicolo per l’infezione. Tra questi, quelli più frequentemente coinvolti, sono: pesce e prodotti a base di pesce, crostacei, molluschi e prodotti contenenti molluschi, vegetali, succhi, pomodori secchi, frutti di bosco, fragole, frutti di bosco misti congelati.
I batteri che possono essere trasmessi dal consumo di pesce crudo contaminato possono provocare patologie più gravi rispetto ai virus. Il trattamento comune a tutte queste infezioni è la reidratazione perché la diarrea (che è il principale sintomo) più o meno intensa provoca una perdita di liquidi che può diventare molto pericolosa soprattutto in bambini e anziani. Le specie maggiormente coinvolte sono ad esempio il Vibrio spp.
I vibrioni provocano infezioni correlate al cibo in tutto il mondo e sono diffusi negli ambienti marini e nelle foci dei fiumi. La temperatura dell'acqua, la concentrazione di materiali organici e la salinità, hanno un effetto significativo sulla presenza e la crescita di questi organismi in ambiente acquatico. Infatti sono rinvenibili più spesso quando la temperatura dell'acqua è tra i 10°C e i 30°C e quando la salinità è tra 5 e 30%. Le infezioni umane sono molto comuni e causate soprattutto da scampi, granchi, ostriche, mitili, vongole, gamberi, aragoste e capesante consumate crude. Vibrio parahaemolyticus è la specie più comunemente associata a infezione umana e provoca gastroenterite.
Anche l’Aeromonas spp. è un comune contaminante del pesce ed è stato isolato in molte aree geografiche sia nel pesce adulto, sia nelle uova. L'organismo sopravvive anche al congelamento e provoca una sintomatologia diarroica autolimitante in giovani individui, mentre negli anziani può provocare gastroenterite cronica.
Plesiomonas spp. invece, è di più raro riscontro ed è rintracciabile in ostriche e gamberetti; diarrea e crampi addominali sono i sintomi più comuni e si autorisolve anche se non trattata.
Abbiamo infine il Clostridium Botulinum le cui spore sono di comune riscontro nel terreno e nel sedimento marino e sono in grado di tollerare temperature estreme per molte ore. La tossina è termolabile e può essere disattivata se il cibo è sufficientemente cotto mentre l'affumicatura e il sottovuoto non eliminano il rischio. I primi sintomi sono vomito, diarrea, vista annebbiata, debolezza muscolare e la progressione può essere rapidamente ingravescente portando alla morte per insufficienza respiratoria se non trattata tempestivamente.
IN CONCLUSIONE
Il consumo di sushi o pesce crudo non rappresenta un particolare vantaggio a livello nutrizionale.
Da una breve analisi si tutte le informazioni raccolte precedentemente, possiamo evincere che il riso gohan non è “raccomandabile” per la nostra dieta.
Per quanto riguarda il pesce crudo, invece, abbiamo visto che il vantaggio è quello di poter mantenere il profilo vitaminico che invece andrebbe perso con la cottura, ma per poter ottenere una quantità corretta dei nutrienti in esso contenuti dovremmo mangiare una grande quantità “bocconcini” di sushi poiché la porzione raccomandata è di 600 g a settimana.
Un buon vantaggio nutrizionale è invece rappresentato dal consumo di alghe e di wasabi.
Vi consiglio quindi di considerare il sushi come l’alimento “premio” ossia lo “sgarro” che vi potete concedere una volta a settimana.
Vi raccomando inoltre di ponderare molto la scelta del ristorante, la qualità del pesce è fondamentale. Abbiamo visto infatti che se questo non è conservato o trattato nel modo giusto si potrebbe andare in contro a seri rischi per la salute.
Nel caso in cui vi faccia piacere provare a prepararlo a casa vi lascio qui di seguito una semplice ricetta.
HOMEMADE SUSHI
Ricetta per la preparazione di 32 pezzi
Ingredienti:
4 fogli di alghe secche nori
1 avocado
1 cetriolo
125g di salmone affumicato o granchio
1 cucchiaino da caffè di wasabi
1 cucchiaio di semi di sesamo tostati
250 ml di riso giapponese a chicco corto
Condimento del riso:
80 ml di aceto di riso
4 cucchiaini da caffè di zucchero
2 cucchiaini da caffè di sale
Salsa d’accompagnamento:
½ cucchiaino da caffè di olio di sesamo
60ml di aceto di riso
60 ml di tamari
1 stuoia di bambù (maki-su)
Procedimento:
1. Lavare ripetutamente il riso in acqua corrente prima di metterlo a cuocere in 250ml d’acqua fredda. Collocare la pentola o casseruola su una fiamma vivace e a ebollizione, abbassare l’intensità del fuoco. Lasciar cuocere per 15 minuti. Scolare.
2. Durante la cottura del riso, preparare il condimento.
In una casseruola, mescolare l’aceto di riso, lo zucchero e il sale. Far raggiungere l’ebollizione a tegame scoperto e versare il condimento sul riso, mescolando con un cucchiaio di legno. Lasciar raffreddare.
3. tagliare in due i fogli di alghe nori e distribuire su ciascuno un pochino di wasabi.
4. disporre lungo una linea verticale 4 cucchiai di riso su ogni mezzo foglio d’alga lasciando libero un bordo di 2cm. Cospargere con i semi di sesamo tostati.
5. tagliare a strisce il salmone affumicato, a bastoncini la polpa del cetriolo (priva dei semi) e a fettine l’avocado. Disporre tutti questi ingredienti sul riso.
6. Arrotolare i mezzi fogli d’alga nella stuoia di bambù, formando un cilindro ben compresso. Lasciarlo in forma 5 minuti, ritirare la stuoia e tagliare il rotolo in cilindri alti un paio di cm.
Servire il sushi con la salsa di accompagnamento.
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